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martedì 15 ottobre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

​NORD SUD

di Marco Celati - lunedì 30 novembre 2015 ore 13:08

Sigur Rós

Scrivo sotto la suggestione della musica post rock, post metal e chissà quanti altri post, dei Sigur Rós, un complesso che viene dall’Islanda, come le cantautrici Björk e Emiliana Torrini. Eseguono un sound art rock, sperimentale e alternativo, che diviene musica ambientale e richiama immagini dell’isola dei ghiacci e dei vulcani, insieme a impressioni psichedeliche a volte dolci e rilassanti, a tratti dure e psicotiche, quando le chitarre distorcono noise e la batteria incalza ossessiva a ripetizione. Ma poi ci sono archi, violiniste e perfino voce e canto negli strumenti a fiato rovesciati. Tutto questo vibra nelle corde del complesso e nella voce bianca, quasi femminea del solista che suona la chitarra con un archetto. Si sono inventati un linguaggio artificiale il vonlenska, “von” in finlandese sta per speranza ed è il titolo di un loro album; in inglese è tradotto hopelandic e in italiano con il neologismo speranzese. Non è come l’Esperanto che sarebbe una lingua internazionale per descrivere parole; il vonlenska è un linguaggio senza grammatica -che bellezza!- fatto di sillabe senza un significato preciso, che serve per trasformare le parole in note, la voce e il canto in puri suoni e musica. Un’astrazione, una lingua astratta. Borges aveva predetto che tutte le arti avrebbero aspirato alla condizione della musica, che non è altro che forma, citando Benedetto Croce e Walter Pater. Questa sublimazione varrà anche per la letteratura e il linguaggio? Non importerà più comunicare con un alfabeto di parole e diventeremo tutti telepati? Chissà! Certo anche l’islandese quanto a vocali e consonanti messe un po’ a caso non scherza.

Come non scherza l’Islanda, la giovane terra del ghiaccio dove vivono solo circa trecento mila persone che hanno conquistato la loro indipendenza, costituendo il primo parlamento della storia e in tempi moderni formando una repubblica di gente libera.

Forse la mitica e ultima Thule descritta dal mercante ed esploratore greco Pitea, l’isola, scoperta da navigatori vichinghi, tra l’Oceano Atlantico e il Mare della Groenlandia, è una terra di contrasti, di saghe, di guerre del merluzzo per il controllo della pesca nei freddi mari del nord: un paese di laghi, di fiumi glaciali, di deserti, montagne, pianure e altipiani, di geyser e vulcani. Il meteo volge improvviso alla pioggia e poi al bel tempo e ancora alla pioggia, per effetto della bassa pressione permanente battezzata, non a caso, “Depressione d’Islanda”, ma la Corrente del Golfo la sfiora, ne rende temperato il clima, relativamente alla sua latitudine e ne consente l’abitabilità. Gli abitanti sono prolifici, non usano cognomi, aggiungono al proprio nome quello del padre, il patronimico, seguito dal suffisso “son” per i figli e “dóttir” per le figlie. Con i nomi faranno un gran casino, ma così molti islandesi sono in grado di ripercorrere il proprio albero genealogico fino ai tempi della colonizzazione dell’isola. L’Islanda presenta una forte attività geotermica, sfruttata per energia e calore, e vulcanica: l’ultima eruzione di un vulcano dal nome impronunciabile, l’Eyjafjöll, nel 2010 riempì di ceneri l’atmosfera sopra l’Europa.

Un cielo di venti caldi e freddi, di nuvole che corrono, di aurore boreali e intramontati soli di mezzanotte, una natura dal fascino alieno, un’isola di ghiaccio e di fuoco: forse un giorno sparirà come è sorta, appena venti milioni di anni fa.

Si è fatta notte e mentre chiudo le imposte osservo il paesaggio: si vedono solo gli ulivi, tutt’intorno è nebbia: si è levata e assedia le case. Ne siamo circondati. Sarà una suggestione d’Islanda? Sembra di essere davvero in un paese di fumi densi che si levano dalla terra e dal freddo e riempiono il buio. La collina è tornata ad essere un’isola come doveva essere nelle ere geologiche, prima che le forze primordiali del pianeta, lentamente, in milioni di anni, la sollevassero dalle acque verso il cielo. Il mondo è immerso nella nebbia, ne è avvolto. È nel buio, non si vede orizzonte e noi qua siamo: uno scrittoio, un fioco lume a una finestra chiusa.

Al mattino mi arriva nel cellulare il messaggio di Alì, un amico senegalese: “padre italiano”, mi chiama. Mi racconta del viaggio in Senegal: un gruppo di cittadini italiani e migranti senegalesi del Comune di Pontedera ha raccolto fondi, ha comprato un furgone Renault, l’ha fatto adibire al trasporto per portatori di handicap e l’ha donato al Comune di Pikine, una grossa città alla periferia di Dakar. E hanno anche riutilizzato tre carrozzine per disabili usate e gettate che sarebbero state rottamate: l’ha fatto un ragazzo dalle mani d’oro, un genio, che ripara biciclette come attività di riabilitazione e reinserimento in una cooperativa sociale. Le carrozzine sono tornate nuove. Alì, che è un campione di pugilato, è andato là con la delegazione italo senegalese per la consegna della vettura e degli ausili. Con lui sono partiti un rappresentante dell’Associazione Sportiva Handicappati, uno della cooperativa sociale Ponte Verde e Cheikh, un membro autorevole della comunità senegalese. Hanno recuperato anche un’ambulanza che era stata spedita un anno fa dall’Italia in seguito ad un’iniziativa di solidarietà internazionale ed era rimasta bloccata, per motivi burocratici, nel porto di Dakar.

Alì mi ha inviato le foto e il filmato della cerimonia di consegna: si vedono lui e accanto il Sindaco di Pikine, Abdoulaye Diop, con una lunga veste bianca, che si danno la mano. E poi mi ha mandato un altro video. Aprilo, mi dice, è un cantante, si chiama Alè. Buffo, penso, Alì e Alé. È un giovane rapper senegalese, portatore di handicap, aggiunge, ha cantato per noi, sono contento: Inch’Allah, se Dio vuole. Apro la clip e mi appare un ragazzo con gli arti piegati in maniera innaturale sulla carrozzina. Guardo quel corpo sofferto e deforme e penso se Dio voleva avrebbe fatto di meglio, ma non sono credente come Alì che mi dice: la mia fede è infinita. Io rispondo a distanza che nei momenti migliori avrei fede negli uomini che degli uomini sono il rimedio, recitando un proverbio senegalese, che compare anche sul video del rapper. Risponde va bene, non è convinto della mia poca fede, ma ci troviamo d’accordo. E mi dice: grazie anche a te. Rispondo salutami il Sindaco. Risponde lo farò. Penso abbiamo fatto del bene, forse del nostro meglio.

Avevo passato la notte con le algide sonorità islandesi, affrontavo il mattino con i suoni del filmato di Alì: si sentivano voci, applausi e il ritmo caldo dei tamburi africani.

Marco Celati

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Treggiaia, Reykjavik, Pikine, 7 novembre 2015

Erano pronti altri racconti. Dopo i tragici fatti di Parigi e la scia di sangue che il terrorismo del sedicente stato islamico sta lasciando dietro di sé, paesi islamici compresi, al precedente racconto “La Marsigliese” e a questo, tra lacrime e rabbia, ho dato la precedenza. Questo non è proprio attinente, ma in qualche modo parla della musica, degli uomini, della vita e della terra. E penso che con forza e con amore, con solidarietà e sicurezza, con diritti e doveri, con libertà e uguaglianza, con crescita e sostenibilità, in attesa che un altro mondo sia possibile, bisogna che anche in questo sia possibile vivere. E vivere meglio. 

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati