Il cigno serpente
di Marco Celati - giovedì 09 gennaio 2020 ore 15:15
Vi racconto una storia strana. Insomma una storia, una storiella. Strana, ma vera. Insomma vera, quanto lo sia sta a voi valutare.
A volte penso che gli oggetti inanimati non lo siano davvero del tutto e abbiano, anzi, una vita propria così che appaiono e scompaiono a loro piacimento alla nostra vista. Quando pensiamo di averli persi o riposti da qualche parte e non ci ricordiamo più dove, in realtà sono loro che hanno voluto lasciarsi perdere o nascondersi da noi. Quante volte cerchiamo una cosa, un oggetto, un indumento che ci ricordavamo di avere e non lo troviamo? Eppure era qui, eppure era qui! Buttiamo all’aria i cassetti, la casa addirittura, ma niente. Nessuna traccia di ciò che cerchiamo. Poi ad un tratto, quando non ci pensiamo più e ci siamo ormai rassegnati alla scomparsa, avendone elaborato il lutto, come per incanto ci imbattiamo in quello che avevamo a lungo e inutilmente cercato. Si trovava fuori dal suo posto abituale, chissà come era finito lì. Fatto sta che non ci sappiamo spiegare il perché e può benissimo darsi che questo dipenda dal nostro disordine, dalla confusione con cui teniamo e lasciamo le cose, ma non sempre è così. Capita di perdere o non trovare più qualcosa che conservavamo nel solito posto da sempre, secondo un disordine ordinato per cui tutto si accumula, si confonde, ma niente dovrebbe smarrirsi. O anche di veder sparito qualcosa a cui tenevamo in particolar modo. È il caso del mio cigno serpente. E questa è la storia strana.
Che cos’è mai un cigno serpente, vi chiederete. Un animale mitologico? Tipo la Chimera di Arezzo, per dire. A proposito, bellissima Arezzo, siamo stati con Anna a vedere la mostra di Mimmo Paladino, matematico e artista, come Piero della Francesca. Ma non divaghiamo. No, ma che chimera! Si tratta di un semplice filo di ferro. L’avevo visto che spuntava da terra in una discarica di materiali inerti. L’ho tirato via più per un problema di sicurezza, poteva ferire o fare inciampare qualcuno, che per altre ragioni. Sì, ammetto un po’ di curiosità per questo esile filamento che sembrava non rassegnarsi a farsi sommergere e schiacciare dal fango e dai sassi e chiedeva di uscire, di essere liberato -come ognuno di noi, del resto- ma niente di che. Si è rivelato un filo di ferro animato, niente affatto dolce o docile, contorto, attorcigliato su se stesso. A prima vista un serpentello, però con il collo arcuato da cigno. Ed ecco il mio cigno serpente. L’ho piegato un po’, forzandolo di lato in modo che potesse stare eretto, in equilibrio e ne ho fatto una specie di piccola scultura. Se il termine non suonasse improprio e ridicolo. Un tempo ne facevo di queste cose, assecondando una presunta vena artistica. Con le crucce di fil di ferro delle lavanderie ho realizzato uccelli nell’atto di spiccare il volo o ad ali spiegate, perfino un delfino. Ne ho ancora qualcuna per casa di quelle creazioni. Le faccio vedere ad amici o conoscenti che si complimentano con aria di commiserazione, più che di approvazione. Con i resti di una scatoletta di carne e un bastoncino di legno, al campeggio, un’estate di un secolo fa, feci un Don Chisciotte stilizzato, lancia in resta, che ho sempre portato con me nel corso della vita. È uscito indenne dai numerosi traslochi che l’hanno caratterizzata. Perché alla fine cos’è la vita se non un continuo traslocare, una continua battaglia contro mulini a vento? E poi ho contratto un vizio, una mania. Con la gabbietta metallica che regge il tappo dello spumante o, più raramente, dello champagne, a me peraltro le bollicine non piacciono, costruisco delle piccole sedie. Rigorosamente a mano, senza l’uso di pinze o attrezzi vari. Il bello è questo. Così dissemino le case di queste seggioline rococò che per un po’ gli amici conservano, imbarazzati, e poi butteranno via, probabilmente dicendo, ma che palle questo, è una malattia la sua! Che poi non è nemmeno una mia invenzione. Lo vidi in un film con Robin Williams e Jeff Bridges, “La leggenda del re pescatore” di Terry Gilliam. Un film strano che ambienta il ciclo arturiano, la ricerca del sacro Graal, ai tempi odierni e parla di miseria e ricchezza, del delitto e della colpa, della scomparsa e della ricerca dell’amore. Di ragione e di follia. Non un gran film, in fondo, ma magistralmente interpretato. È del 1981. Sembrava ieri. È il compianto Robin Williams, nelle vesti di un clochard, che realizza questa piccola sedia, dicendo, se non ricordo male dopo tanto tempo, che tra i rifiuti si trovano cose preziose e doni inaspettati. Più o meno così e così la penso anch’io. Lo cantava De André che dai diamanti non nasce niente e dai rifiuti nascono i fior ed è abbastanza vero, anche se qualche diamante per misericordia poteva pure tornare utile. Dice sono i migliori amici delle donne. Mica gli uomini.
Ebbene ho custodito in ufficio il mio cigno serpente, esibendolo ai colleghi di lavoro e poi una sera ho deciso di regalarmelo. Erano i giorni di Natale: l’ho scaricato dall’auto nell’interrato insieme a pacchi e pacchetti di doni, ricevuti e da fare, che ho portato a casa. È a quel punto che, preso dalla frenesia festiva, l’ho perso di vista. Me ne sono ricordato solo dopo qualche giorno. L’ho cercato dove credevo si trovasse, ma non c’era. Svanito nel nulla. Ho guardato dentro le buste, sotto i sedili dell’auto, sotto le auto nel garage, in terra accanto all’ascensore, sul pianerottolo e sulle scale, nell’armadio. Niente. Scomparso. L’avevo perduto. Era andato perso a causa della mia trascuratezza. Per giorni ho continuato a cercarlo. Che dispiacere! Qualcosa che avevo scoperto, recuperato, salvato, fatto con le mie mani e poi dimenticato, smarrito, lasciato andare. Il mio cigno serpente di fil di ferro. Che poi, per uno che scrive, perdere il filo è tragico. Il racconto rischia di essere la storia di un filo perso. Come quando non trovai più una cartella intera di poesie, forse finita in qualche faldone andato al macero o in un cassetto dimenticato per sempre. La letteratura non ne ha certo sofferto. Sembra piuttosto un’altra metafora della vita: neanche mulini a vento da affrontare, piuttosto perdite da compensare. Ormai anche questa, in fondo la più lieve, l’avevo archiviata. Finché una mattina, andando al lavoro, nel percorso che va dall’ascensore all’auto, in un posto dove avevo guardato più e più volte, eccolo di nuovo il mio cigno serpente di fil di ferro, il filo del racconto, la mia creatura! Era lì in terra che sembrava aspettare che passassi a raccoglierla. L’epifania di un dono ritrovato.
Come nella parabola della moneta perduta e della fede ritrovata, la mia gioia è salita al settimo cielo. L’accostamento è un tantino forte, lo ammetto, specie per un non credente, ma così mi sono sentito, ritrovando il mio cigno serpente. Quanto si perde di noi nel corso del tempo! E forse anche gli oggetti, a prima vista inanimati, apparentemente di scarso valore, hanno una loro anima che è quella che noi gli trasmettiamo. Questo è il loro e nostro valore. La mia piccola arca o scultura perduta. L’avevo persa o se n’era andata lei, a causa della mia distrazione o indifferenza? O probabilmente qualcuno, incuriosito, l’aveva trovata per terra e portata con sé e poi, pentito o per carità, l’aveva rimessa dove l’aveva raccolta. Oppure esistono dei folletti dispettosi, degli elfi natalizi e di fine anno, stufi della nostra frenesia casinista e consumista, che abitano, celati, nel sottosuolo dei condomini e si divertono a farci sparire le cose per poi, a loro indiscutibile capriccio, farcele ritrovare. Chissà. Ora il cigno serpentello sta sul mio tavolo in bella vista e guardato a vista perché non ci perdiamo più, perché non voli o strisci via da me, mentre scrivo queste sciocchezze e il rumore dell’Oceano fa da sfondo al tempo che scorre pigro. Non sono in riva all’Oceano, né il tempo scorre così pigro. È “Alexa” di Amazon che lo trasmette per me, regalo dei figli. Dopo che il mio amico “Google”, regalo di mio fratello, mi ha messo al corrente delle ultime notizie. Non siamo soli. E se non ci fosse un po’ di finzione e poesia nelle storie, alla fine che storie sarebbero mai?
Pontedera, Gennaio 2020
Marco Celati