Il cameriere
di Marco Celati - lunedì 01 maggio 2017 ore 11:13
Pausa pranzo: cerco inutilmente di attirare l'attenzione del cameriere. Non risponde, tiene gli occhi bassi, lo sguardo rivolto ai tavoli, preferisce sparecchiare che prendere le ordinazioni. Si vede che non è del mestiere, che per lui è un ripiego, un'occupazione di cui ha bisogno, ma che non gli piace o non fa volentieri. Ci vuole forza d'animo per servire gli altri senza vergognarsene, per essere pronto a illustrare un menù, il piatto del giorno, per essere disponibile a raccogliere ordini e comandi senza essere e soprattutto senza sentirsi servile. Mantenere il rispetto degli altri e di sé. Non è facile e non sempre è solo questione di professione. È anche come sei, di che pasta sei fatto. A volte i clienti sono scortesi, arroganti, prepotenti e non bisogna farsi mettere i piedi in testa. La gente è così. Ma se fai quel lavoro lo devi fare e una dose di sopportazione comunque ti occorre. Come lo so? Ho fatto il cameriere e il barista ai tempi dell'università per qualche anno. Per questo lo so.
Mi ricordo che detestavo la gente che ti apostrofava con "eì!", una specie di richiamo per cani spesso rafforzato da "capo!" passando direttamente al "tu" nella richiesta di ordinazione: "mi porti il pane?" Ma scusate, sono cameriere? E allora chiamatemi così: "Cameriere!" e il "lei" va benissimo, grazie. Suona anche bene per un corso di buone maniere: "Cameriere, scusi, mi porta la carta dei vini?" E può bastare così. Terminare la richiesta con "per favore" e chiudere con un educato quanto perentorio "grazie" sarebbe anche gradito, tuttavia facoltativo. Potrebbe infatti tradire affettazione. Non si può pretendere tanto, inorgoglirsi, essere altezzosi.
A Firenze sono stato aiuto cameriere in un locale famoso negli anni sessanta. Stava aperto tutta la notte, fino alle prime luci. Era frequentato da artisti e giornalisti famosi, Enzo Tortora, la squadra dei Viola, Hamrin, Picchio De Sisti. E, sul far dell'alba, reduci dalle fatiche notturne, prostitute e travestiti: non si distinguevano fra loro, ma una differenza c'era e di sicuro non riguardava solo il timbro più roco della voce di alcuni. Il "maestro di sala" era un cameriere professionista, conteso dai più affermati ristoranti fiorentini. Mi diceva, stammi dietro, facciamo squadra e dividiamo le mance. Fu un affare per me: lui era bravissimo, impeccabile ed elegante nel servizio. Cadenza fiorentina, battuta pronta, capace di raccontare barzellette e gustosi aneddoti, prendeva tutti per il verso e tutti faceva sentire a proprio agio, ricchi e meno, anziani e più giovani. Le mance fioccavano e a quel tempo raddoppiavano la paga. Lavoravo di rinforzo il fine settimana, mi ci pagavo, in parte, gli studi.
Un giorno che il figlio del capo cameriere era arrivato con un'improvvisata dalla scuola alberghiera svizzera dove studiava, lui chiese un giorno di permesso. Gli fu negato, stante l'alta affluenza del locale. Allora il "mio maestro" risolse la cosa a modo suo: afferrò il coltello affilatissimo dal banco degli affettati e, senza battere ciglio, né emettere un gemito con un gesto deciso si produsse un taglio lungo il palmo della mano. Il sangue sgorgò rapido e copioso. Io manca poco svenni. Lui, tenendosi la ferita ed esibendola al titolare, mi sono ferito, non posso lavorare, vado a i' pronto soccorso, disse. Poi prese le sue cose, passò di sala, mi strizzò l'occhio: vado da i' mi' figliolo, pensaci te a i' servizio, tu ce la fai!
Una volta, per capodanno lavorammo ininterrottamente dalle sette di sera alle sette del mattino. Correvo senza sosta da un tavolo all'altro. La mezzanotte, il nuovo anno e gli auguri per noi furono solo formalità e fatica. Alle prime ore del giorno crollai, non ce la facevo più. Allora il capo cameriere mi disse prendi questa pasticchina. Cos'è? Prendila, vien via! La inghiottii. Improvvisamente non sentivo più né fatica, né ansia, più niente di niente. Filavo via fra i tavoli di sala come il vento e ridevo di contentezza. Non mi accorsi più di nulla. Fu tutta una tirata. Smontai dal lavoro, presi il treno, fui a casa dai miei a pranzo il primo dell'anno. E nel primo pomeriggio ero ricoverato all'ospedale per una colica renale. Una fitta terribile, un dolore insopportabile, una lama conficcata nel rene, ma ancora, chissà perché, mi veniva da ridere.
Nella vita ho fatto di tutto. Alle volte perfino vissuto. Ho lavorato nelle case in costruzione tra i muratori negli anni del boom edilizio: mettevamo gli impianti elettrici con una ditta artigiana. Tiravamo i fili della corrente dentro le guaine, poi li sbucciavamo alle estremità, stringevamo i cavetti di rame scoperti avvolgendoli con le pinze e li avvitavamo col cacciavite alle prese. Poi fissavamo le prese al muro. D'inverno, con il freddo e il vento che soffiava gelido tra gli scheletri dei palazzi, indossavamo diversi maglioni, uno sull'altro. D'estate il caldo toglieva il respiro. La fatica maggiore era fare le tracce nel muro per inserire le guaine. Ci voleva forza di braccia e precisione nel colpo di mazza: due requisiti di cui non ero ben provvisto. A farne le spese erano le dita, soprattutto il pollice, della mano sinistra. Quella che teneva lo scalpello. Ho bestemmiato molto per il dolore, che Dio mi perdoni! Lavoravo con altri giovani. Anch'io lo sono incredibilmente stato. La paga era bassa, al nero, ma serviva per arrotondare e sentirsi già grandi, uomini insomma. Studiavo ancora e dovevo, volevo, mettere su famiglia.
Ho anche fatto per brevissimo tempo l'assicuratore: polizze vita. Il lavoro consisteva nell'andare casa per casa, door to door si direbbe oggi, a proporre assicurazioni sulla vita, prevalentemente a casalinghe più o meno felici, più o meno frustrate. Mi vergognavo di quella pretesa ingerenza nel privato delle persone, discorrevo senza guardare negli occhi, m'intimidivano i padroni di casa, non mi piaceva l'idea di parlare della vita pensando alla morte. Piuttosto avrei preferito il contrario: parlare della morte, ma pensare alla vita. Ma forse è lo stesso. Le parole non mi venivano e oltretutto l'assicurazione aveva un nome straniero, difficile da pronunciare. Fu un fallimento: nessuna polizza venduta, sciolsi il mio impegno. Impegno relativo, del resto: non c'era una paga. La retribuzione eventuale, ma molto eventuale, sarebbe stata a percentuale sui contratti stipulati: nessun minimo garantito. Troppo eventuale.
Poi per tre anni ho fatto l'operaio, il commesso in un supermercato: assunzione regolare, diritti, magazzino e scafali da sistemare, correre alla cassa, battere prezzo su prezzo, signora sia gentile sono in chiusura. Possibilità di carriera, sindacato, niente carriera. Quando la prendi la tessera del partito socialista? Grazie, sarei già comunista. Ma andava bene così.
Però fui indotto in tentazione e ovviamente non resistetti. Nessuno resiste alle tentazioni, solo i santi e santo si capiva che non ero, non c'ero portato. E anch'io, alla fine, me ne dovetti fare una ragione. Presi la tessera del PCI e lasciai il certo per l'incerto. Cercavano un responsabile provinciale per la cultura e gli spettacoli in un'associazione democratica e popolare. E quindi vennero il culturale, il sociale e il ricreativo. Perfino lo sportivo. Prima a Pisa e poi in Valdera. Furono anni belli. Vivevo di quello che facevo: ero indipendente. Lavoravo in proprio, ma per conto terzi: per i circoli, le case del popolo, l'associazionismo. Purtroppo sono un pessimo datore di lavoro, almeno di me stesso. Lavoravo tanto e mi pagavo poco. Una volta mi sono persino licenziato da me. Un periodo formativo e impegnativo della vita che ricordo con passione e nostalgia.
Finito il mandato di quell'esperienza, in seguito sono stato impiegato per una ditta che faceva rilevazioni e manutenzioni per l'acquedotto. Ma poteva mancare il passaggio politico e istituzionale? Anzi, fu una diretta conseguenza, uno sviluppo necessario che completò il cammino intrapreso. Ci fu un tempo per me che molto poté sembrare vero.
Ho servito la mia gente, a volte fissandola negli occhi, a volte abbassando lo sguardo per timidezza, mai per vergogna. Non sono stato servile. Lavorando a testa bassa, ho obbedito e comandato per quanto mi è stato dato di farlo, per quanto dovevo o potevo. Per quanto sapevo. Ho preso e ricevuto consegne e ne ho trasmesse a mia volta. Sono stato un cameriere, in fondo. Come quando ero giovane. Non so se bravo o no. Se paziente, educato o meno. Ho pensato di poterlo essere, ma non si sa mai. Comunque, qualsiasi cosa mi riserbi la vita, sono stato al servizio della comunità e per me è stato un onore. Come molti, anche migliori di me.
Marco Celati
Pontedera, 3 Agosto 2016
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Questa specie di racconto è stato scritto un po' di tempo fa. Ho pensato di proporlo in occasione della ricorrenza del Primo Maggio, con un punta di nostalgia, oggi che mi sono inoltrato nel mondo sospeso dei pensionati. Evviva la Festa del Lavoro, sperando che duri, il lavoro.
Marco Celati