In carcere
di Marco Celati - sabato 26 dicembre 2015 ore 07:00
Sono stato diverse volte in carcere, quest’anno, ma mi hanno sempre rilasciato. Ci sono stato al seguito di un amico, quasi un mio alter ego, che si occupa di rifiuti e durante l’anno è stato spesso a insegnare agli ospiti della Casa Circondariale Don Bosco a Pisa come si fa la raccolta differenziata. D'intesa con l'Istituto penitenziario ed il Comune di Pisa anche al Don Bosco è stato introdotto il sistema di raccolta che in città si chiama “porta a porta” e qui potremmo definire “cella a cella”. Si possono usare termini diversi: camere detentive, reclusi, detenuti, ospiti, casa circondariale. Sempre carcere è, sempre celle e carcerati sono, per quanto i termini possano essere evasivi: e non possono esserlo nemmeno troppo, trattandosi di una prigione. Sono state fatte assemblee per motivare i reclusi: i rifiuti sono il risultato di un insieme di progresso e di spreco, testimoniano come si sfruttano la Terra e gli uomini sulla Terra. I rifiuti possono essere contenuti, differenziati, da essi si può recuperare materia ed energia. Nei paesi più avanzati e ricchi si producono più rifiuti, in quelli più poveri assai meno e i rifiuti dei paesi ricchi finiscono spesso nelle discariche dei paesi poveri. E da quei paesi poveri tanti degli ospiti del carcere provengono. Dentro non ci sono “signori”, ho visto tanti stranieri e per lo più povera gente.
“Differenziare significa non considerare i rifiuti uno spreco da buttare o da bruciare, ma una risorsa che può generare, liberare nuova materia per nuovi prodotti. Significa in sostanza dare a tutto ciò che viene definito rifiuto o scarto, un'altra vita.”
Così parlava quel mio amico in una delle assemblee e chissà se la parola “liberare” la usava a caso e per “un’altra vita” intendeva solo quella dei rifiuti. A me veniva da pensare ad altro. A quelle vite mal spese o malvissute, alcune per colpevole scelta, altre per determinato destino: la provenienza, la miseria, l’errore che incombe sulle nostre esistenze. E la loro ansia di libertà. Per nessuno trovavo giustificazione, per tutte avvertivo compassione e pena. Ma la pena era la loro, quella che scontavano o portavano dentro, consapevoli o meno. Un altro mondo è possibile? Lo è un’altra vita? Intendo un’altra vita libera su questa terra, una seconda occasione: un’occasione ancora.
“Differenziare i rifiuti vuol dire anche produrre, consumare e vivere più sobriamente, prevenendo i rifiuti e immaginando una società e un mondo più equo: le risorse della terra non sono infinite. La Terra, sosteneva Gandhi, può soddisfare i nostri bisogni, ma non la nostra avidità. Stiamo saccheggiando il pianeta e intanto lo stiamo disseminando di discariche.
Un modo per cambiare questo stato di cose è separare fra loro i rifiuti per poterli riciclare. L'organico, costituito dagli avanzi del cibo, può diventare concime agricolo e può produrre energia. Le plastiche possono dare altra plastica senza usare necessariamente altro petrolio per produrre plastica vergine. Dalla carta si può ricavare altra carta, sprecando meno acqua e meno energia, senza ricorrere alla cellulosa e al taglio degli alberi. Perfino dal tetrapak si possono ricavare carta e alluminio. Questo è ciò che si può ottenere dai rifiuti che si producono nella Casa Circondariale Don Bosco, anziché gettarli tutti insieme indiscriminatamente nel cassonetto dell'indifferenziato e avviarli in discarica o all'inceneritore.
Utilizzare meno energia, che per lo più è prodotta dall'utilizzo dei combustibili fossili, petrolio e carbone, significa inquinare meno l'atmosfera: oggi le emissioni eccessive di anidride carbonica, metano e gas serra contribuiscono all’inquinamento e al surriscaldamento del pianeta e causano mutazioni climatiche con gravissime conseguente ambientali.
Tutti siamo chiamati ad impegnarci per il nostro futuro: anche i reclusi possono e debbono farlo.”
Questa era, più o meno, la conclusione degli incontri, sempre accompagnati dalla proiezione di diapositive. E io pensavo: da spreco a risorse. Dagli avanzi la rinascita delle cose e degli uomini. In fondo come nella canzone: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Forse qui sta il senso della circolarità della vita, oltre che dell’economia.
All’inizio dell’anno sono stati distribuiti in ogni cella mastelli e sacchini. Nei corridoi, nelle mense e nel bar sono stati posizionati contenitori per smaltire correttamente i rifiuti in maniera differenziata. Ad alcuni dei carcerati, quelli in regime di semilibertà, articolo 21 li chiamano, è stato fatto un corso di formazione e a due di loro, su indicazione della direzione del carcere, sono state assegnate dalla Geofor due “borse lavoro”, tramite la Cooperativa Don Bosco che assiste sul piano sociale i detenuti. Un po' di soldi, pochi, per compensare il lavoro di operatore ecologico dei due reclusi che, facendo il giro delle celle e dei corridoi, raccolgono i rifiuti e li portano nei cassonetti posti tra le mura del carcere dove, ad ore prestabilite, passa il giro di raccolta urbano, sotto il controllo delle guardie carcerarie. I cassonetti per la raccolta sono stati sostituti: prima c’erano solo quelli grigi dei rifiuti indifferenziati, spesso maleodoranti. Ora ci sono quelli della carta e del multi materiale leggero: imballi in plastica, alluminio e acciaio. E ci sono quelli dell’organico: gli avanzi del cibo e dei pasti. Dopo un anno di lavoro i risultati sono buoni: la raccolta differenziata è arrivata al 46%. Al di là della cifra che si può incrementare, “dentro” si fa lo stesso lavoro del resto della città che passa al “porta a porta” in tutti i quartieri. I detenuti sono cittadini, uomini e donne e, al pari di tutti i cittadini, sono dotati di senso civico e comprendono e rivendicano il valore del rispetto dell'ambiente.
Ma sopratutto il valore sociale e umano di tutto ciò a me è parso impagabile. Forse per questo alla conferenza stampa di fine anno per la presentazione dei risultati del progetto, dai detenuti presenti è partito un applauso. Forse quegli uomini e quelle donne hanno capito noi, forse no. Forse noi abbiamo capito loro, forse no. Davanti alla sala riunioni mi sono fermato alla rete del campo di calcetto. Mi ricordo quando i Comuni lo donarono al carcere: un campetto circondato dalle mura e dalla recinzione. Accompagnai un Sindaco per una partita inaugurale contro i carcerati, giocai anch’io. Il fondo, di erba sintetica, era ruvido e sabbioso, mi scorticai una gamba per un intervento in scivolone, alla disperata. Ma c’era gente parecchio più disperata di me tra gli avversari e nel contrasto non prevalsi. Il loro libero, nonostante proprio libero non fosse, mi “rubò” parecchie volte la palla. Mestiere? Però facemmo un bel goal su azione insistita da centro campo e passaggio smarcante alla sinistra sul portiere in uscita. Segnò il Sindaco di Pisa. Esultò, ci abbracciamo. Liberi o reclusi, Sindaci o meno, quando si gioca si torna ragazzi senza meriti o colpe, senza ombre o destino. Nella squadra del carcere giocava Adriano Sofri, l’intellettuale recluso. Non so se la sua colpa esisteva. Forse un po’sì. Il rigore che l’arbitro gli dette di sicuro no. Pareggiammo. E fu bene così. Tutti ci stringemmo la mano.
Quando si entra in un carcere l’impressione che si prova è vedere e sentire i cancelli che si aprono e si chiudono davanti e dietro di te. Così quando si esce. E tutte quelle guardie carcerarie in divisa che ti accompagnano e ti seguono. Poi gli sguardi delle persone recluse che a volte sembrano di sfida, altre volte tradiscono un senso di smarrimento, come un’ombra che passa tra gli occhi, forse un rancore di anime prigioniere, unito alla voglia di redenzione. Ma di certo è la nostra suggestione, forse il dubbio di esistere che prende in quei luoghi.
Mi viene a mente papa Giovanni XXIII, il discorso ai carcerati a Regina Coeli. Era il 26 dicembre del 1958. "Miei cari figlioli e cari fratelli, poiché siamo nella casa del Padre, anche se in questi giorni questa circostanza esprime quanto nella casa del Padre ci può essere di mesto e di penoso... Eccoci qua, sono venuto, m'avete veduto: io ho messo i miei occhi nei vostri occhi, ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore. Questo incontro, siate pur sicuri, resterà profondo nella mia anima. E al principio dell'anno nuovo, direi, del primo anno di quello chiamato il mio pontificato, ho ben piacere che sia proprio un'opera di misericordia". I carcerati presero ad applaudire il Pontefice e non smettevano più.
È sempre sorprendente il passaggio tra la condizione di liberi e di reclusi, a volte esposto quasi come condizione naturale, con senso di fatalismo. Un passaggio tra il bene e il male che stanno dentro di noi. Una donna ci dice: a Tirrenia, dove vivo, nei Bagni - gli stabilimenti balneari- facevano la raccolta differenziata ed era cominciata la costruzione dei cassonetti sotto terra -interrati- chissà se li hanno finiti. Io sono finita dentro. Sono venuti bene?
E, alla fine della conferenza stampa, un ragazzo ben vestito, mi avvicina educatamente e si presenta: sono della sezione di Forderponte, mi dice, dandomi la mano che stringo, ostentando carattere e calore. La sezione menzionata denota la storica appartenenza alla sinistra proletaria e sottoproletaria di un popolare rione di Pontedera. Il ragazzo mi ha riconosciuto, siamo concittadini. Ho capito chi era. Con suo padre abbiamo fatto qualche turno di notte insieme, quando facevamo le Feste dell’Unità. Aveva un cane lupo che, essendo da guardia, ci richiamava al nostro compito di vigilanza. Andava qua e là e noi dietro senza chiudere un’occhio, accidenti a lui, fino al mattino, quando il turno veniva a darci il cambio. Il ragazzo pensavo fosse un assistente sociale. Invece mi ha detto un po’ di tempo fa ho combinato un guaio e ora lo sconto. Gli ho detto conosco tuo padre, mi ha detto lo so. Gli ho detto tutti se n’è fatte tante nella vita e prima o poi si scontano tutte, però te esci di qui e non ci tornare. Mi ha detto esco e non ci torno. Mai più.
Nella sala d’aspetto del carcere una ragazza giovane, seduta in manette, parlava con le due guardie che, in piedi, le stavano accanto come angeli custodi. Le mani erano strette tra le ginocchia, si vedevano il metallo delle manette e le fascette di plastica che cingevano i polsi o così mi è sembrato. L’ho guardata, finché non mi sono reso conto che la stavo fissando e allora ho distolto lo sguardo. Non avevo mai visto dal vivo una persona in manette. Sentivo una stretta dentro, avvertivo come una sofferenza per effetto di costrizione. La ragazza invece appariva tranquilla, conversava e scherzava, non mostrava vergogna, anzi sembrava quasi dimostrare fierezza. A me dava il senso di un’umanità costretta e privata di se’. Prigioniera.
Uno dei due reclusi che ha svolto il servizio di raccolta dei rifiuti nel carcere mi ha chiesto di continuare a lavorare anche dopo, “fuori”. Sta finendo di scontare la pena. Non mi sono chiesto quale pena fosse, quale colpa sia stata. L’ho incontrato in un bar vicino al Don Bosco: è in regime di semilibertà. C’era una ragazza con lui. Un’assistente? La sua ragazza? Non l’ho chiesto. La legge Smuraglia assegna agevolazioni a chi assume persone che escono per consentire un loro reinserimento nel lavoro e nella società. È uno straniero, parla bene l’italiano. Gli ho detto ci penso, non dipende solo da me, ti faccio sapere. È una speranza che cercano.
Prima di uscire al direttore, al personale della direzione ho fatto gli auguri di buon Natale e buon anno. Sono brave persone che fanno un mestiere difficile. Abbiamo fatto gli auguri anche ai carcerati alla fine dell’incontro. Non per tutti loro, per tanti motivi, il Natale è una festa. Non per tutti sarà un anno buono. Ma gli auguri sono gli stessi. Quelli che faccio anche a voi.
Pisa, 23 dicembre 2015
Marco Celati