Perché si leggono poco i libri di storia?
di Roberto Cerri - lunedì 09 marzo 2015 ore 11:45
Forse state per leggere un articoletto irritante. Pretenzioso. Me ne scuso in anticipo. Chi vuole può evitare di procedere. Chi lo fa però dovrà chiedersi con me, perché i libri di storia interessano sempre meno un’opinione pubblica che pure consuma cultura?
Ho già parlato dell’impatto depressivo che la crisi della ricerca storica ha sugli archivi. Almeno in Italia. Ma non è su questo tema doloroso che voglio tornare. Il punto che intendo approfondire è proprio l’interesse per la storia. O meglio, la diminuita passione per la storia che poche settimana fa ha portato perfino due professori, un inglesi e un americano, a Cambridge e ad Harvard, a lanciare un Manifesto in difesa di questa disciplina e del suo valore “civico”. Ecco l’indirizzo per scaricare il testo (http://historymanifesto.cambridge.org/files/6114/1227/7857/historymanifesto.pdf).
Un politologo americano, il Prof. Francis Fukuyama, dopo il crollo del muro di Berlino scrisse che la storia era finita. Intendendo con queste sintetiche parole che le differenze politiche nella storia ormai avevano poco senso. Per fortuna (o purtroppo) su questo punto si sbagliava. Ma è indubbio che dopo il crollo del Muro di Berlino l’interesse per la storia come disciplina e come spiegazione degli eventi è venuto scemando. Prima domanda: questa affermazione è vera? Se sì: quali ne sono le cause?
Risposte. Una dimostrazione scientifica che certifichi, Big Dati alla mano, una diminuzione di interesse per la storia non esiste. Ma questa percezione è largamente condivisa in diversi ambienti intellettuali. Anch'io, dal mio insignificante osservatorio, purtroppo la condivido. E provo a darmi alcune spiegazioni. Sintetiche. Mi spiace. Ma un blog è un blog.
Le grandi narrazioni che provano a dar senso all’immaginario collettivo, quelle che potremmo chiamare le filosofie della storia, sono tutte in crisi. L’idealismo hegeliano (con tutti i suoi epigoni italiani) e lo storicismo marxista (da Gramsci ai marxisti neomelodici) che per cento anni hanno avuto un certo peso sull’opinione pubblica “nazionale” sono stati asfaltati. Nonostante che il recente libro di Piketty sostenga anche tesi vetero-marxiste e nonostante che il ministro delle finanze greco, Varoufakis, abbia accennato ad un vago interesse per il filosofo-economista di Treviri, lo storicismo hegeliano-marxista che ha influenzato l’immaginario di molti intellettuali e di milioni di individui nel ‘900 oggi è antiquariato librario di poco prezzo sulle bancarelle dell’usato. Il pensiero liberale antistoricista e antideterminista di cui Popper, Hayek e lo stesso Berlin (sia pure da posizioni diverse) sono stati nel ‘900 alcuni dei massimi esponenti si è imposto (in maniera consapevole o meno) nel modo di pensare la filosofia della storia, mentre a livello popolare domina il “pensiero corto” (non a caso questo è un assillo dell'History Manifesto citato sopra).
L’irrazionalismo novecentesco e la crisi dell'illuminismo fanno il resto. Così il secondo millennio si è chiuso con alcuni che proclamavano la fine della storia e tanti altri che sostenevano che anche se non era finita, la storia non era comunque una disciplina in grado di dare senso alle vicende dell’umanità sul pianeta. Tutti gli altri sono troppo impegnati a telefonare o a divertirsi per perdere tempo a riflettere su queste sciocchezze.
Contestualmente c'è stata la più grande esplosione di documentazione mai realizzata nella storia. I processi di automazione, internet e la digitalizzazione di miliardi di documenti oggi consentono di avere su ogni evento (grandi e piccoli) una informazione quasi esaustiva e onnicomprensiva fatta di migliaia di testi e di foto. Ipotizzo che anche questa ricchezza documentaria costituisca un elemento di crisi della disciplina storica. Per padroneggiare milioni di documenti serve tempo e servono idee selettive (filosofie della storia). Ma se queste ultime vengono meno e se la mole dei documenti da consultare cresce, come meravigliarsi che fare lo storico divenga un mestiere impossibile e che leggere di storia non ci aiuti molto a chiarire il presente?
Segnalo altri due fattori. Viviamo nell’era di internet. L’opinione pubblica pretende risposte immediate e convincenti a domande urgenti. Una storia “ideologicamente” orientata potrebbe darle. Ma gli uomini di oggi avvertono il punto di vista fasullo della risposta. Il guaio è che una storia scrupolosa e filologica ha bisogno di tempo per produrre risposte e spesso ne finisce di vaghe, con molto ritardo rispetto ai tempi delle domande e per giunta non sintetizzabili in un tweet .
Insomma la storia è in crisi perché l’uomo contemporaneo non sente il bisogno di spiegarsi il proprio ruolo collocando il suo agire nel corso del tempo (una faccenda troppo complicata per chi va di fretta, ha da mettere insieme tre lavori per campare e magari deve gestire due o tre famiglie). Gli uomini pretendono come bambini risposte facili a domande difficili e le pretendono in tempo reale. La ricerca storica non si adatta bene a questi ritmi. Non una ricerca seria, attenta ai documenti e scrupolosa nell’accertare i fatti.
Naturalmente la storia non scomparirà. Nessuna paura. In parte si sta trasformando in narrativa e supporto alla cinematografia (con risultati interessanti). Non a caso c’è un forte rilancio del romanzo storico (che non è storia ma se è ben curato qualche idea la trasmette). Così come si vedono spesso film e sceneggiati a carattere storico. In parte diventa “agiografia”, sì in insomma “propaganda” (ma anche le storie dei santi moderni sono utili: da Olivetti a Bartali, per rimanere nel nostro amato paese). In parte rimarrà confinata in alcuni laboratori universitari e in buoni libri di scarso successo editoriale. Più in generale attenderà vichianamente il ritorno del momento buono. Sperando che venga!
Roberto Cerri